di Alessandro Campi
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Mercoledì 26 Giugno 2019, 00:05
Sull’assegnazione a Milano e Cortina dei giochi olimpici invernali del 2026 ci sarebbe molto da dire. Riguardo soprattutto le positive ricadute, economiche e d’immagine, che un simile evento può determinare nel corso degli anni se ben organizzato e ben gestito. Quel che questa vicenda spiega bene, per cominciare, è che dal punto di vista politico la negazione del buongoverno, più che il malgoverno, è il non governo. La differenza politicamente rilevante non è tra chi opera guardando al bene comune e chi persegue il proprio tornaconto utilizzando la ricchezza pubblica (questo è un manicheismo tipico della propaganda populista, nella realtà si possono benissimo fare le due cose insieme). Ma tra chi, per fare l’interesse dei cittadini, agisce e decide accettando il rischio di compiere errori (questa è la politica intesa in senso proprio). E chi invece preferisce l’inerzia, la rinuncia, il non fare, la dilazione nel tempo di qualunque scelta giudicata troppo impegnativa: un atteggiamento tipicamente anti-politico e che peraltro non annulla, come si crede ingenuamente, il pericolo della corruzione o dello spreco di denaro. Insomma la differenza è plasticamente rappresentata dal buon governo di Sala e Zaia che accettano e vincono la sfida delle Olimpiadi invernali. E il non governo è incarnato dalla Raggi che nemmeno provò a correre per il palio, tra l’altro più ambizioso del Giochi 2024: l’Olimpiade con tutti i crismi.

Come è noto, nella celebre allegoria di Ambrogio Lorenzetti, visibile nel Palazzo Pubblico di Siena, come cause del cattivo governo si trovano indicati tre vizi, che nell’affresco volteggiano in forma umana sopra il governante-tiranno: l’Avarizia, la Superbia e la Vanagloria. Se ne potrebbe indicare un quarto: l’Insipienza che produce immobilismo. E che quasi sempre nasce dalla mancanza di coraggio, di volontà, di virtù e di capacità. Ecco spiegato quali conseguenze ha avuto la pugnalata alle spalle inferta a Roma tre anni fa con quel no urlato dal balcone capitolino: l’aver impedito alla Capitale di giocare la sua partita e di crescere, di migliorarsi, rendendosi più vivibile e all’altezza della sua storia. C’è subito da confutare una tesi, quella rilanciata con rullo di tamburi dal vicepremier M5S ieri sera per giustificare l’ondata di amarezza palpabile da ventiquattro ore tra i cittadini della Capitale. Secondo Di Maio ci sarebbe stata una «profonda differenza tra il progetto di Roma, a spese dei romani, e quello di Milano che non prevede un solo euro da parte della città». Più o meno la stessa tesi ribadita dalla sindaca. Peccato che a smentirlo siano i fatti. Ovvero le cifre di quel dossier olimpico che tre anni fa non venne giudicato, evidentemente,nemmeno degno di essere letto.

Il Cio garantiva un miliardo e 700 milioni di dollari a fondo perduto e tutte le spese, al 100 per cento, sarebbero state gestite dal governo. Non c’era un euro a carico del Campidoglio. Ma sappiamo com’è andata. Primo interrogativo-considerazione: evidentemente Virginia Raggi aveva consapevolezza dell’essere troppo piccola per una sfida così grande? Un segno quindi di acuta consapevolezzae di realismo? Oppure, una rovinosa scelta che ha impedito a Roma di ripartire all’insegna di investimenti vitali, proprio come avvenne con successo con i Giochi del 1960 (ormai preistoria)che poi la rilanciarono come competitiva Capitale europea? Il risultato oggi è sotto gli occhi di tutti. E il crollo verticale che la città ha vissuto sulla propria pelle negli ultimi tre anni è qualcosa che realizzato una ferita bruciando, negando i diritti dei romani.

Oggi non disporre di strade, di una rete di trasporti, di un sistema di rimozione dei rifiuti efficiente è appunto la negazione dei fondamentali diritti di cittadinanza.
Una sorta di dittatura dell’inefficienza che è quanto di più anti-democratico per chi paga le tasse e compie il proprio dovere nel luogo in cui vive e lavora. Non proprio un riuscito esempio di democrazia diretta. Il risultato, come si può vedere, è che Milano corre sempre più veloce, mentre Roma arranca faticosamente e perde sempre più capacità competitiva rispetto alle altre capitali europee. In questo diverso ritmo non c’è ovviamente alcun fatalismo storico-antropologico, come talvolta si dice ricorrendo ai soliti stereotipi da barzelletta: la frenesia meneghina che guarda al soldo opposta all’indolenza capitolina che preferisce la vita placida. E’ piuttosto una questione di visione progettuale e di capacità individuali, che alcuni politici hanno e che ad altri mancano del tutto. Peccato solo che a pagare il prezzo di queste mancanze siano al dunque i cittadini. E, nel caso di Roma, l’Italia intera.
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