Sarà perché il Natale rende tutti più buoni, tanta gente lo ha accarezzato e molti romani - con il loro buon cuore che parteggia sempre per gli sfortunati e con il loro spirito che si diverte amabilmente quando c’è un marziano a Roma - hanno fatto selfie insieme a lui. Per poi twittarli in tutto il mondo, dove le disavventure di Spelacchio sono diventate proverbiali.
Al punto che un’agenzia di stampa del Ghana ha così espresso la sua preoccupazione: «La tristezza di Spelacchio sta intristendo il Natale a Roma». Un po’ è così e un po’ non lo è del tutto. Forse è l’estetica del brutto e il gusto per la decadenza che attrae gli spettatori, ma di fatto - dopo tante ingiurie - cominciano ad arrivare da altre città richieste di adozione a distanza per l’abete di Piazza Venezia. C’è chi vuole portarlo in Svizzera, per farlo morire di eutanasia. Chi gli si rivolge così: «Tieni duro Spelacchio». Chi gli dedica poesiole in rima: «Er popolo romano / vedendo er pateracchio / lo ribattezzò Spelacchio». Chi lo difende meravigliosamente: «Tutti ad attaccare Spelacchio, quando non è stato neanche indagato. Vergogna!».
Ovvero? Che a Roma anche una cosa bella, e in origine Spelacchio lo era, tutto frondoso e verdeggiante, quando è nelle mani degli attuali inquilini del Campidoglio finisce per rovinarsi. Il problema, evidenziato da questa piccola grande storia politico-morale-floreale, è che Roma è città tutt’altro che sprovvista di eccellenze - figuriamoci: ne ha più di ogni altra capitale al mondo! - ma sembrano sparire o non esistere se affidate alla gestione capitolina che, negli ultimi anni, s’è mostrata incapace di far brillare le tante cose belle di cui ci si potrebbe vantare. E non sapendole maneggiare finisce per dare dell’Urbe una brutta immagine, degradandola. Il caso Spelacchio ci sta portando troppo lontano da lui? No. Perché in altre mani la sua sorte di ex aitante alberone, ridottosi a scheletro, sarebbe stata diversa. La riprova che l’approccio capitolino al ribasso è quello che non funziona è rintracciabile in un esempio su tutti. La stessa sindaca Raggi non ha preferito - proprio per una sana punta di orgoglio - sfoggiare per la prima dell’Opera uno splendido décolleté, da tutti ammirato, anziché l’anonimo abitino indossato lo scorso anno?
La lezione Spelacchio è dunque divisa in due parti. La prima: a Roma serve il bello, non la compassione. La seconda: l’abete diventato salice piangente ha avuto la sfortuna, ed è in compagnia di ville e musei a gestione comunale, di finire nella parte sbagliata del campo. Quella in cui la cura è sostituita dall’incuria. La quale può pure essere oggetto di selfie, come sta accadendo in queste ore a Piazza Venezia, ma rappresenta un boomerang planetario per la Capitale d’Italia.