Le conseguenze/ L’effetto spacca-Italia e la sfida nella Lega

di Alessandro Campi
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Lunedì 23 Ottobre 2017, 01:00 - Ultimo aggiornamento: 08:30
Nelle ultime settimane si è detto più volte (correttamente) che il referendum autonomistico leghista in Lombardia e Veneto nulla c’entrava con il referendum indipendentista promosso dal governo della Catalogna. Costituzionale e legittimo il primo, per come è stato promosso e per come ieri effettivamente si è realizzato. Illegale e fuori dalle regole il secondo, nelle procedure di indizione e nello svolgimento caotico che ha avuto. 
Ma questa precisazione, in sé incontestabile, rischia di essere un mero formalismo.

Come serve a poco ricordare le diversità d’ordine istituzionale, sociale, economico e culturale tra Spagna e Italia. Sul piano del giudizio politico, infatti, non può sfuggire che le due vicende, significativamente coincidenti anche sul piano temporale, si inseriscono in una fase storica che registra due fenomeni tra di loro strettamente intrecciati e per certi versi epocali: il progressivo declinare, sul piano della legittimità e della capacità d’iniziativa politica, degli Stati-nazione (d’impianto burocratico-centralista e spesso nati dall’accorpamento sotto un’unica sovranità di comunità un tempo indipendenti) e il contestuale accrescersi (ovunque in Europa) delle richieste d’autonomia amministrativa e di autodeterminazione politica da parte di regioni e territori che si ritengono economicamente vessati dallo Stato unitario al quale appartengono.
O comunque regioni e territori che vogliono vedere giuridicamente riconosciute le loro peculiarità di lingua e cultura. 

Parliamo di un movimento della storia - dall’unione alla divisione, dalle differenze che trovano un punto di sintesi (E pluribis unum, secondo il motto che si legge sullo stemma degli Stati Uniti d’America) alle differenze che vogliono essere riconosciute come tali - che non si sa dove potrebbe condurre.
L’autodeterminazione nel nome della libertà, individuale e collettiva, è un bel principio, ma non sembra una risposta politicamente efficace alla globalizzazione che ha messo in crisi gli Stati. Anche perché applicato secondo la sua logica intrinseca esso rischia di produrre, di separazione in separazione, realtà aggregative sempre più piccole nel loro desiderio di omogeneità e autonomia. Sino a scoprire che la forma perfetta di autogoverno e di organizzazione sociale è quella dell’individuo che vive solitario su un’isola deserta.


Non solo, ma l’indipendentismo e lo spirito di secessione, che oggi si sentono invocare con tanta leggerezza come alternativa all’autoritarismo intrinseco dei classici Stati nazionali, non possono che riprodurre su una scala inferiore ciò che si contesta su una scala più vasta: vale a dire forme di organizzazione e gestione del potere che sono pur sempre Stati. Magari territorialmente e culturalmente compatti (Dio non voglia che si cominci a vagheggiarli anche etnicamente omogenei), ma che non è detto siano destinati ad essere – come nei vagheggiamenti che oggi si sentono – delle oasi di libertà, benessere ed efficienza. Anche le piccole realtà possono diventare politicamente oppressive e sperperare la loro ricchezza: dipende sempre dalla qualità delle classi di governo che un popolo, piccolo o grande, si sceglie. Viene poi da chiedersi quale possa essere il destino politico dei tanti statarelli di cui si agogna la nascita in un mondo globalizzato come quello odierno e nel quale più si è minuscoli più si è in balìa di forze e poteri che non si riesce a controllare. C’è qualcuno, a parte chi l’ha scelta per gli affari, disposto a considerare quello di Malta un bell’esempio di sovranità, indipendenza e libertà? 

Ma questa, si dirà, è politica astratta o generica. La politica concreta ci dice che in Lombardia e Veneto si è votato perché a queste due regioni, economicamente virtuose, vengano semplicemente riconosciute maggiori competenze secondo quanto espressamente previsto dalla stessa Costituzione. Il voto referendario è stato preferito alla via negoziale diretta col Governo con l’argomento che quest’ultima sino ad oggi non ha mai funzionato e che un mandato popolare chiaro avrebbe dato ai Governatori delle due regioni maggiore forza contrattuale nei confronti di Roma.

Dal dato di affluenza – verso il 60% in Veneto, vicina al 40% in Lombardia – la scommessa voluta da Zaia e Maroni, non senza forzature propagandistiche, è stata vinta: anche se dal primo non dal secondo. Con riflessi sulla politica nazionale (e sugli equilibri interni alla Lega) che a questo punto si fanno interessanti, dato per scontato che dallo spoglio delle urne emergerà un voto schiacciante a favore del Sì.
Su un piano generale, il rischio vero di questo voto, di cui si è detto che non puntava a minacciare l’unità nazionale, è che in realtà determini una crescente divisione del Nord dal resto del Paese. Specie se questo voto referendario dovesse sommarsi ad un voto politico che, con il meccanismo previsto dal Rosatellum, potrebbe vedere la vittoria schiacciante nelle regioni del Nord di un centro-destra fortemente egemonizzato o condizionato da una Lega tornata alle origini delle sue battaglie sempre ambiguamente in bilico tra autonomismo e secessione. A questo si deve anche aggiungere l’effetto pericolosamente emulativo ingenerato da questo voto.

Tutte le Regioni che vantano un residuo fiscale positivo vorranno a questo punto chiedere non solo maggiori poteri e competenze allo Stato, ma anche di trattenere i frutti in termini di tasse della ricchezza che producono. Sarebbe l’inizio di un processo che se non inserito all’interno di un più vasto progetto di riordino in senso federale delle relazioni tra Stato centrale e periferia (per il quale però al momento mancano del tutto le condizioni politiche) finirebbe solo per disgregare ulteriormente il tessuto civile e istituzionale del Paese.
Quanto alla Lega viene invece da chiedersi cosa resterà, dopo questo voto, del progetto salviniano di un partito nazional-sovranista. Salvini in questi mesi ha finto di cavalcare questo referendum. In realtà l’ha subìto con fastidio, sapendo che una vittoria politica come quella che Zaia in particolare ha fatto registrare avrebbe rappresentato un freno alle sue ambizioni di futuro leader del centrodestra e avrebbe aperto una pericolosa competizione interna. Ma tra il rischio di divisione dell’Italia e quello di divisione della Lega del secondo, con tutto il rispetto, ci si può anche non preoccupare.
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