La politica estera/ Manifesto degli interessi italiani nel mondo

di Romano Prodi
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Domenica 21 Gennaio 2018, 00:04
È opportuno, in questo periodo di grandi cambiamenti, dedicare una particolare attenzione ai problemi ed alle prospettive della nostra politica estera. 

Occorre prima di tutto riflettere sul peso dell’Italia nello scacchiere mondiale. Non siamo certo una grande potenza e nemmeno possiamo ambire ad una leadership in ambito europeo ma siamo ancora, per popolazione, per sviluppo economico, per livello tecnologico e produttivo, un paese di media grandezza, con una funzione determinante in ambito regionale e con una non trascurabile capacità di influenza nelle istituzioni internazionali.
Condizione preliminare per esercitare questo appropriato ruolo e questa ragionevole capacità di influenza è tuttavia la consapevolezza delle nostre possibilità. 

Per interagire in modo fruttuoso con gli altri bisogna infatti decidere chi siamo. Vi sono paesi che cercano di apparire giganti mentre in realtà sono nani ed altri, tra i quali l’Italia, che coltivano una specie di complesso di inferiorità nel portare avanti i propri legittimi interessi. 

In troppi casi della storia recente e meno recente siamo stati “trattati male” semplicemente perché il consenso dell’Italia alle proposte altrui veniva ritenuto scontato.

Questo è anche frutto della nostra politica interna, indebolita dalla precarietà dei governi e dalle nostre divisioni, con le ovvie conseguenze negative sulla continuità della linea politica e sull’efficacia della nostra presenza nelle istituzioni internazionali. Sul primo di questi due punti non rimane che augurarci che ci si renda finalmente conto che quest’instabilità è il rischio più grave per il futuro della nostra democrazia, anche se il perseguimento della stabilità non è certo la peculiarità della legge elettorale con la quale ci accingiamo a votare. Bisogna invece rendersi conto che vi è un legame oramai inestricabile fra politica interna e politica estera e che una parte dominante delle grandi decisioni sul nostro futuro vengono prese in ambito sovranazionale ( Unione Europea, Onu, Nato...).

Tutto ciò ci obbliga a dedicare maggiori energie per preparare in modo sistemico ed approfondito il personale che, a qualsiasi livello, ci deve rappresentare in queste istituzioni. Troppe volte le decisioni che ci danneggiano derivano dall’improvvisazione dei nostri rappresentanti i quali, invece, debbono essere selezionati, preparati e addestrati per anni e anni, come altri paesi stanno facendo da tempo. Occorre elaborare, a questo scopo, un progetto specifico dedicato a coinvolgere e coordinare tutte le articolazioni del governo e tutte le nostre strutture decisionali. In mancanza di questo l’indebolimento della nostra presenza nelle sedi dove tutto si decide non potrà che aggravarsi. 

Queste sono le premesse per un’efficace politica estera in un quadro mondiale in cui tutto sta cambiando anche riguardo ai nostri tradizionali punti di riferimento. Per decenni, infatti, la nostra politica di difesa e sicurezza è stata opportunamente legata alla Nato che, con la quasi esclusiva forza degli Stati Uniti, ci ha protetti di fronte alla minaccia sovietica e ha salvato la nostra democrazia. Con la caduta del muro di Berlino il ruolo della Nato è diventato più indefinito, la sua azione si è estesa ben al di fuori dell’Atlantico verso il Medio e più lontano Oriente, con un’Europa che ha continuato comodamente ad affidare alla protezione americana la sua sicurezza e il suo futuro. Vi sono state tensioni e differenze di vedute su singoli temi, ma noi europei ci siamo sempre accontentati di sentirci protetti dagli Stati Uniti. 

Le cose stanno però cambiando ad una velocità imprevista. Il Presidente Trump, anche se spesso contraddetto dai suoi collaboratori, lancia continue frecciate contro la Nato, mentre la Turchia (secondo esercito della Nato per numero di militari) svolge una politica sostanzialmente autonoma, mentre la politica dell’Alleanza sembra non rendersi conto di quanto sia diventato importante per l’Europa il sud del Mediterraneo e l’intero Continente africano. In questo quadro così mutato la politica estera italiana deve considerare prioritario il sostegno alla difesa comune europea e l’attenzione verso il quadrante sud, al quale i suoi vitali interessi sono indissolubilmente legati. Il progressivo spostamento delle nostre truppe dall’Afghanistan e dall’Iraq verso l’Africa corrisponde perciò ad una logica più vicina all’interesse nazionale. Tale strategia può essere tuttavia efficace solo nell’ambito di una politica europea che non obbedisca all’esclusivo interesse di un singolo paese, pur amico e alleato. Potremo infatti moltiplicare il nostro sforzo militare verso l’area mediterranea e africana, ma solo nell’ambito di una politica europea comune. Ho ad esempio più volte posto il problema della nostra provvidenziale missione in Libano dove da un decennio, con unanime riconoscimento positivo, sosteniamo lo sforzo maggiore per il mantenimento della pace in un’area vitale per tutta l’Europa ma dove lasciamo ad altri prendere le decisioni politiche che riguardano il futuro della stessa area. Per non parlare della Libia, dove le iniziative di Francia e Gran Bretagna, con l’improvvida azione militare e con le successive strategie politiche, non solo hanno pesantemente danneggiato i nostri interessi economici, ma hanno soprattutto reso ingestibile quel flusso di migranti che stiamo affrontando con il plauso di tutti ma con l’aiuto di nessuno. 

È chiaro tuttavia che questi obiettivi primari della nostra politica estera non possono essere nemmeno avvicinati se l’Italia non si inserisce fortemente e stabilmente tra i paesi guida della nuova Europa. Non può certo essere la sola Francia e nemmeno un esclusivo asse Franco-tedesco ( che pure resta il pilastro fondamentale della futura Europa) in grado di interpretare un’equilibrata politica comune. Un nostro ruolo attivo, programmato e consapevole in un quadro non più nazionale ma europeo, può definitivamente contribuire a cancellare le pretese neocoloniali e a rendere quindi possibile un equilibrato sviluppo dell’intera Africa. La politica nei confronti dell’Africa non può essere primariamente militare: lo sviluppo viene prima. 

Non è necessario sottolineare come tutto ciò sia di vitale importanza per il futuro del nostro Mezzogiorno e per una gestione umana e regolata delle migrazioni. In occasione dell’allargamento dell’Unione Europea verso nord e verso est ci eravamo impegnati a mettere in atto una nuova politica per il Mediterraneo. Nulla è invece stato fatto: le esplosioni delle primavere arabe e la loro improvvisa fine si deve, in non piccola parte, all’abbandono da parte dell’Europa. Così come è mancata una politica europea dopo l’esplosione del fenomeno migratorio. La conseguenza di tutto ciò sulla politica italiana è quindi semplice ed elementare: occorre più Europa ed occorre una partecipazione più forte ed attiva dell’Italia nell’Unione Europea. Una partecipazione influente, resa oggi meno difficile dall’uscita della Gran Bretagna: evento che globalmente danneggia l’Ue ma rende certamente più realistico lo spostamento dell’asse verso il sud e il Mediterraneo. Pur non nascondendo le nostre attuali fragilità abbiamo quindi un nuovo ruolo da giocare in Europa. Non certo cercando di spezzare i rapporti fra Francia e Germania ma inserendoci attivamente nella dinamica sempre esistente fra i due paesi e operando in modo più attivo nell’interagire con gli altri membri dell’Unione. 

Questi sono i principi fondanti della nostra politica estera anche se, in un mondo multipolare, oltre alla tradizionale amicizia con gli Stati Uniti non si possono certo mettere in secondo piano i rapporti con la Cina e la Russia. Le frequenti e regolari visite a Pechino della cancelliera tedesca e l’analogo programma del presidente francese dimostrano come le iniziativa nazionali siano ancora importanti e come l’Italia debba essere consapevolmente attiva in questa direzione. 

Penso infine che l’ormai lunga rottura fra l’Europa e la Russia costituisca un errore storico a cui l’interesse di entrambe le parti deve porre rimedio con uno sforzo diplomatico di cui non si vede ancora la consapevolezza. 

Queste riflessioni non esauriscono certo il quadro del ruolo che l’Italia è chiamata a ricoprire nel mondo ma possono forse aiutarci ad affrontare questo compito tenendo concretamente conto dei nostri limiti ma anche delle nostre potenzialità. 
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