La poesia, nelle Marche, ha un tratto distintivo che a partire dal secondo Novecento si è ben delineato con autori apicali come il grande dialettale Franco Scataglini, il quale coniò il concetto di “residenza” dimostrando, nei primi anni Ottanta, che la periferia geografica, dall’avamposto di Ancona, potesse diventare un centro letterario. Un luogo geograficamente alienato, come tutti i luoghi della terra. Su questa scia Alessandro Moscè (che è di Ancona, ma vive a Fabriano), con il suo convincente quarto libro di poesia, “Per sempre vivi” (Pellegrini, Cosenza, 2024) preserva e continua la tradizione regionalistica e universale con una poesia lirica che fa soprattutto del dialogo a distanza con i morti il suo punto di forza.
La testimonianza
L’esperienza diretta, la testimonianza in prima persona, il tema cruciale di un realismo visionario ed evocativo sono il fulcro di versi energici, di chi guarda, ascolta e sa trasfigurare le apparizioni, i sogni e i silenzi (vengono in mente i poeti della terza generazione: in particolare Sereni, Caproni e Penna). La bellissima sezione dal titolo “Dialoghi con mio padre” segna il punto più alto di questa raccolta: Moscè chiede al genitore, in un sogno crepuscolare e nel distacco dal mondo, di conoscere la verità su Dio e sul suo percorso di redenzione e purificazione.
Il controcanto
Si tratta di una prosa poetica, di un controcanto che conduce al rito della fine.
Le figure femminili
Le stesse figure femminili, nelle rarefazioni, fanno parte di un repertorio che conduce al prezioso mistero dell’esserci in un borgo, in una via urbana, tra le colline dell’entroterra o lungo la distesa adriatica: «Sono fermo sui tuoi capelli corvini / su questo rettilineo che corre nelle tue gambe / assorbita l’aria del vento randagio / più di noi che ci chiamiamo / più di noi impazienti di occhi scavati».